La mia gita ad Auschwitz (Oświęcim).
Oggi ho letto alcuni articoli francamente deliranti — ma ormai la politica è diventata una forma di ossessione, quindi non sorprende che produca deliri — sui viaggi scolastici ad Auschwitz. Pare che, secondo certi commentatori (e almeno una Roccella), questi studenti dovrebbero andarci “per imparare che non dobbiamo interrogarci sull’antisemitismo, perché è una cosa lontana e solo fascista”. Ecco, avrei qualcosa da ridire.
Nel 1986, Novembre per la precisione, quando feci anch’io quella gita: quei viaggi venivano organizzati con l’aiuto di due associazioni: l’ANPI e l’ANED.
Ora, la sola presenza dell’ANED — un’associazione fondata da persone che nei campi di sterminio ci sono state davvero e ne sono uscite vive per miracolo — dovrebbe bastare a far capire che la Roccella, nel migliore dei casi, non sa di cosa sta parlando. E sono gentile.
Non riesco proprio a immaginare un ex deportato dire a una scolaresca: “Vabbè, è roba vecchia, e poi non c’è più il regime”.
È un’idea talmente assurda da risultare risibile. Mi ricorda quelle pubblicità antidroga "la droga uccide scegli la vita. Non fare come la Roccella".
La gita, in autobus, era organizzata da un’agenzia “con esperienza” — così la presentavano — nel senso che sapeva come sfruttare le convenzioni governative per i viaggi scolastici di studenti minorenni. Non serviva il passaporto, bastava la carta d’identità con il permesso di espatrio, il cartellino al collo, la modulistica e via.
E no, non era certo una spedizione di “comunisti militanti”, nonostante l’ombra benevola di ANPI e ANED.
I comunisti emiliani di allora erano un caso sociologico a parte: profondamente convinti, ma con un curioso pudore ideologico. Non volevano che i propri figli vedessero davvero il “paradiso socialista”.
Ufficialmente, nessuno lo chiamava così — ma nei fatti, ne parlavano come di un luogo dove “magari non stanno bene come noi, ma tutto funziona, e hanno ospedali magnifici”.
Ecco, pare che il comunismo, a giudicare dai racconti, fosse soprattutto un formidabile costruttore di ospedali.
Il comunismo ospedaliero: una dottrina sanitaria con velleità politiche.
Forse è da lì che nasce la leggenda per cui anche Cuba è un modello — non per la libertà, non per l’economia, ma perché “ha ospedali da favola”.
Come se l’unica realizzazione concreta del socialismo reale fosse stata l’USL.
Il comunismo della Mutua.
Comunque, dopo la fermata a Innsbruck si riparte verso Katowice.
Già sull’autobus ci avvertono di stare attenti a quello che diciamo durante le soste: pare che in Polonia ci fosse stato un coprifuoco militare fino a pochi anni prima, e che la gente fosse ancora “un pochino sulle sue”.
Insomma, la versione scolastica di “taci, che il nemico ti ascolta”.
E se per caso finisci in galera per una battuta fuori posto, tirarne fuori uno, spiegano, non sarebbe semplice — anche perché, ci dicono, “i polacchi non parlano né inglese né francese”.
Bavbavi, come diceva qualcuno quando le parole non arrivavano.
Il tragitto era stato scelto con cura, per evitare il grosso del sistema stradale del Patto di Varsavia, che magari andava benissimo per fermare i carri armati, ma per un autobus turistico italiano era un incubo logistico.
E poi, non si sa mai: in caso di “problemi” — non era chiaro quali — ci avevano detto che i mezzi potevano essere trattenuti.
Forse per precauzione, il nostro pullman non era esattamente il massimo del comfort. E neanche molto "nuovo", direi. O "moderno".
L’unica fermata la facemmo in mezzo al nulla, lungo la strada, davanti a un edificio che ospitava solo i classici cessi alla turca.
Fuori, una macchia di alberi spogli nel gelo dell’inverno.
Solo anni dopo scoprimmo che quella zona era “vagamente inquinata”: un eufemismo, perché pare che quegli alberi non mettessero le foglie neanche d’estate.

E siccome gli insegnanti erano terrorizzati — e ci avevano descritto la Polonia come un luogo dove si finiva in galera anche solo per aver criticato una panchina rotta — ci trovammo tutti, più o meno, in modalità Orwell.
Non so davvero perché la Roccella pensi che la gita ad Auschwitz fosse una faccenda “filocomunista”: onestamente, anche se avessimo trovato un coro di ballerine hawaiane a cantarci Aloha Aloha, dopo tutti gli "avvertimenti" durante il tragitto, noi avremmo comunque visto tutto grigio.
Forse gli alberi non erano morti per l’inquinamento, e c'era stato un incendio in estate, ma ai nostri occhi lo sembravano comunque. Di qualsiasi cosa fossero morti, era il comunismo.
Ostinate, le Polaroid che scattavamo — rigorosamente dall’autobus, perché “non si sa mai che il regime ti arresti per una fotografiaaaa!” — ci spiegavano che fuori il mondo era a colori. Ma per un qualche motivo ottico, dopo tutti quegli avvertimenti, vedevamo tutto in bianco e nero. Tipo il film 1984 di Orwell.
Altro che indottrinamento: eravamo un gruppo di sedici/diciassettenni paralizzati dal timore di infrangere qualche regola invisibile.
Ero (e resto) convinto che lo spettro luminoso a Katowice fosse quello di sempre, con tutti i colori dell’arcobaleno. Solo che noi, condizionati dal panico, lo vedevamo tutto in scala di grigio. Del resto ci sono stato due anni fa, e la radiazione elettromagnetica mi e' sembrata abbastanza normale. Ma ammetto, mancava il comunismo. Non ai polacchi, credo.
Quando finalmente ci permisero di scendere per mangiare qualcosa in una specie di ristorante-mensa, arrivò l’elenco delle proibizioni:
- Non scattare fotografie. Ti avrebbero arrestato per aver rivelato “segreti militari”, tipo uno stadio a forma di UFO — l’Area 51 polacca, ma col calcio dentro. Come nascondi segreti militari, se non facendoci uno stadio sopra?
- Non criticare niente. Perché, ovviamente, i servizi segreti polacchi avevano una divisione addestrata a comprendere il dialetto ferrarese. E criticare quel che vedevi, poteva costarti anni e anni di carcere. In cella con Lech Walesa. Che era identico a mio padre, sputato, baffi compresi, ma non lo dissi per non terrorizzarli ancora. Mio padre, una spia polacca.
- Mai, e dico mai, usare il walkman. La musica occidentale era vietatissima, issima, issima: galera assicurata per una cassetta di David Bowie. Mi fecero legare i capelli lunghi per nasconderli, no collane, no magliette con cose metallare.
Poi, naturalmente, in città abbiamo incrociato due punk con la cresta — segno inequivocabile che il regime aveva le idee confuse. O forse le avevano i miei prof.
Ma no, ci spiegarono gli insegnanti: “Sono spie. Sono lì per ascoltare cosa dite.”
E noi, naturalmente, ci credemmo.
Ma la raccomandazione più insistente era: non fidatevi dei polacchi.
Potevano sembrare amichevoli, ma — ci dissero — era solo perché volevano carpire le nostre opinioni e denunciarle al regime.
Insomma, un Paese intero trasformato in un gigantesco agente provocatore.
Il problema è che i polacchi, nella realtà, sono sempre amichevoli.
E poi, diciamolo: pensare “Dio, che tette quella lì” era probabilmente un pensiero condiviso da tutti, anche dentro il regime.
Difficile credere che la polizia politica avesse un reparto speciale per reprimere gli ormoni: i passeggeri del nostro autobus avrebbero sconfitto ogni tentativo.
Quindi sì, i professori erano mediamente terrorizzati all’idea di dover gestire dei “problemi” con la polizia locale, e per precauzione decisero di terrorizzare noi.
Va detto che l’albergo di Innsbruck, dopo il nostro passaggio, sembrava Dresda dopo il bombardamento, ma dubito che il regime polacco avesse tempo o interesse per le marachelle di una scolaresca italiana.
Avevano guai ben più seri. Tipo il fatto che stava crollando tutto, ma si sa: i dettagli non interessano agli insegnanti in gita.
Non riesco a immaginare nessuno che sia tornato da quel viaggio con un’idea positiva del comunismo.
Se era propaganda, direi che fu un fallimento epocale.
Il pranzo, a onor del vero, fu quasi decente.
Ci servirono una sorta di crema di maiale, nel senso letterale: un maiale ridotto a crema, da spalmare sul pane caldo.
Io mi limitai ai ravioli, che erano buoni — ne chiesi anche il bis.
Mi avvertirono che chiedere il bis era “contro il comunismo”, ma francamente me ne fregai: quando lo feci, le due signore dietro il banco si scambiarono qualcosa in polacco e risero.
Sarà stato un messaggio cifrato per il Partito, o forse si erano semplicemente divertite a vedere un ragazzino che chiedeva il bis di un piatto dignitoso.
Chissà.
C’è da dire che eravamo partiti con gli zaini pieni di “cibo al sacco”, nel senso ferrarese del termine: coppie di pane ferrarese (vedere lo schema sotto) col cuore del coppone, farcito di prosciutto o di salame.
Il socialismo reale, a confronto, sapeva di mensa scolastica.

E poi, naturalmente, avevamo con noi una riserva strategica di cibo comprato a Innsbruck, “perché non si sa mai se in Polonia si trova da mangiare”.
Roba che definire ultraprocessata sarebbe stato un complimento: biscotti austriaci dolci quanto uno zuccherificio intero, formaggini con data di scadenza nel 2999, wurstel ai conservanti e merendine alle mele con piu' calorie del plutonio.
A confronto, la nostra “Girella” era cosi' poco processata che sembrava un pezzo di carne di mammut cotto sul fuoco, al sangue, e ancora pulsante.
Comunque, alla fine si arriva ad Auschwitz — o meglio, a Oświęcim, come lo chiamano i polacchi.
A me in Polonia piacevano le lettere dei cartelli e le poche insegne dei negozi: quei segni strani, pieni di accenti e tagli, mi affascinavano.
Per uno come me che riempiva la Smemoranda disegnando loghi di gruppi metal, tipo i Motörhead (con la famosa ö che non sapevo cosa fosse, ma “faceva cattivo”), tutte quelle grafie un po’ uncinose avevano un certo fascino visivo.
I professori ci avvisarono che ridere ad Auschwitz sarebbe stato un crimine, ma dimenticarono di precisare che era in senso morale.
Noi prendemmo tutto alla lettera: ci immaginavamo già in prigione alla prima risata.
Del resto, c’era poco da ridere davvero.
La visita, in sé, fu limpida: tutto ruotava attorno all’idea che “è successo, e quindi può succedere ancora, e per questo bisogna ricordare”.
Non ricordo nessuno — né guida, né professore, né testimone — che dicesse che “poteva succedere solo col fascismo italiano”.Si parlava di nazismo, punto. E questo perche' eravamo ad Auschwitz.
L’antisemitismo, come concetto storico, non fu il tema principale: se ne parlava solo come premessa, come motore culturale di quella macchina di sterminio.
Ma è anche naturale. L’antisemitismo è antico, stratificato, complesso — dal Caso Mortara a Dreyfus, fino a San Simonino di Trento — ma bisogna essere onesti:
quando ti trovi dentro un campo di sterminio nazista, il nazismo ti appare, diciamo così, "leggermente più vistoso del resto".
Sì, il Caso Mortara è imbarazzante.
Sì, l’Affaire Dreyfus fu vergognoso.
Sì, il culto di Simonino di Trento è una pagina infame.
Ma, con tutto il rispetto, non vai ad Auschwitz per parlarne.
E allora mi chiedo:
che cos'altro si aspettava la Roccella da una gita ad Auschwitz?
Che si organizzasse un seminario sull’antisemitismo nel Rinascimento?
Un laboratorio sull’editto di espulsione degli ebrei dalla Spagna del 1492?
Forse no.
Forse, se sei dentro Auschwitz, è naturale che si parli dei nazisti che uccidono ebrei — cioè di quello che, in quel posto, è realmente accaduto.
Non servono interpretazioni creative: basta guardarsi intorno. Secondo me c'era poco da interpretare.
E bisogna anche confessarlo: non e' che ti "spingano all'antifascismo", ma tendenzialmente, diciamolo bene, "i fascisti non ci fanno bella figura".
Va detto che le gite ad Auschwitz non erano affatto diffuse in tutta Italia: erano quasi esclusivamente una specialità del Nord, o meglio, del Nordest.
All’epoca, viaggiare in corriera significava affrontare ore interminabili di frontiere e dogane.
Una scuola di Napoli o di Lecce avrebbe dovuto aggiungere un paio di giorni solo di viaggio: praticamente impossibile.
Anche dal Nordovest, onestamente, era un’impresa.
Comunque, quando finalmente uscimmo dal confine polacco tirammo un sospiro di sollievo collettivo.
Non perché avessimo corso chissà quale pericolo, ma perché i professori, terrorizzati — e diciamolo, abbastanza ignoranti — ci avevano riempiti di storie sul rischio di finire in galera per qualunque sciocchezza.
Alla fine, la vera minaccia era la loro paranoia.
In realtà i polacchi erano cordialissimi e, soprattutto, cercavano di venderci qualunque cosa.
A noi maschi proponevano oggetti meccanici: io, per dire, comprai un set di limette sottilissime, perfette per svasare gli spruzzatori del carburatore del Fifty e far passare più miscela.
Alle ragazze offrivano boccette di colonia, foulard con fiori stampati e collanine d’ambra.
Ovviamente i professori vietarono tutto: “Alla dogana vi arrestano!”, dissero.
Al ritorno scoprimmo che non c’era nessuna dogana.
Con la stessa logica, ci fecero togliere i crocifissi — e a me perfino la maglietta dei Venom, perché “Satana è sempre religione”, dissero.
Del resto, “la religione è vietata nei Paesi comunisti”.
Peccato che ad Auschwitz fosse pieno di suore, e proprio accanto al campo ci fosse un convento vero e proprio.
Quando chiedemmo spiegazioni, ci risposero che “erano domande stupide”.
Certo, perché Papa Karol Wojtyła era già in carica da anni, ma noi avremmo dovuto credere che bastasse un crocifisso al collo per finire in carcere.
Crocefissi che, tra l’altro, le ragazze avevano comprato proprio perché fan di Madonna — quella vera, non la Vergine. La Bonora, unica ragazza cattolica della mia classe, aveva al collo la Tau di legno dei francescani, non un crocifisso di acciaio grande quanto un'incudine. Quelle erano le madonnare.
Ma per rispondere alla Roccella, no: quella gita non mi lasciò certo un’impressione positiva del comunismo.
Non mi fece venire voglia di occupare un centro sociale, né mi convinse che l’antisemitismo fosse una colpa esclusiva del fascismo.
Fu semplicemente un viaggio nella memoria, nella quale si insisteva che se era successo una volta allora poteva succedere ancora.
E bisogna ammettere che, ad Auschwitz, come dire… il nazismo non passa inosservato.
Ecco perché continuo a chiedermi:
in che modo una gita ad Auschwitz potrebbe essere diversa?
Che tipo di “narrazione alternativa” si aspetta la Roccella?
Forse sì, avrebbero potuto risparmiarci tutta quella psicosi sul comunismo, perché a conti fatti ci avevano talmente intimoriti che le Polaroid uscivano a colori, ma i ricordi restavano in bianco e nero.
Però anche quella paranoia non era “propaganda comunista”: era isteria italiana da gita scolastica, la solita paura che “succeda qualcosa”.
Non vedo, insomma, in che modo un viaggio dentro un campo di sterminio possa essere spacciato per “educazione ideologica”.
Devo dire una cosa: le parole della Roccella sono talmente assurde che faccio fatica a capire cosa diavolo stia contestando.
Ha parlato, sì — ma, anche riascoltandola, non si capisce bene contro chi o contro cosa ce l’abbia davvero.
Un sospetto, però, mi viene.
All’epoca, nella mia scuola, il Fronte della Gioventù c’era eccome: la sezione giovanile del MSI, quella guidata da Gianfranco Fini, con Gianni Alemanno subito dietro.
Proprio loro.
E la cosa più buffa era questa: per quanto si sforzassero di apparire “moderni” e “europei”, uno dei quattro del FdG nella mia scuola leggeva Sven Hassel come se fosse la Bibbia, e parlava continuamente di David Irving, citandolo come “lo storico che ha dimostrato che i lager non sono mai esistiti”.
Aggiungeva poi, con l’aria di chi la sa lunga, che “in fondo, non c’erano neanche così tanti ebrei in Europa”.
La mia impressione è che per i comunisti duri dello zoccolo PCI emiliano la Polonia fosse una vista almeno imbarazzante, ma Auschwitz lo fosse ancora di più per il Fronte della Gioventù.
Ma non perché li turbasse una mancanza di riflessione sull’antisemitismo europeo — che, ricordiamolo, fu in gran parte di matrice cattolica, proprio come cattolico si proclama oggi Fratelli d’Italia — bensì perché Auschwitz smentiva in modo brutale il credo negazionista che già allora serpeggiava dentro il FdG, quella stessa palestra ideologica da cui sarebbe poi uscita la classe dirigente dell’attuale FdI.
Anche volendo cercare un argomento alternativo, poniamo l’antisemitismo “palestinese”, al massimo avrebbero potuto farci deviare per Monaco, a vedere il luogo dove, nel 1972, i terroristi di Settembre Nero massacrarono gli atleti israeliani.
Ma, diciamolo, non sarebbe stato paragonabile: dopo aver visto Auschwitz, tutto il resto impallidisce.
E allora forse sì, avremmo dovuto anche “studiare l’antisemitismo europeo” — ma quello vero, quello che affonda le radici nelle prediche dei pulpiti, nei roghi medievali, nei ghetti voluti dai papi.
Perché se guardiamo la storia, in materia di antisemitismo i palestinesi sono ancora in fila ad aspettare il loro numero: gli ultimi arrivati in coda. E i pro-pal stanno ancora cercando la macchinetta per prendere il numero.
Alla Roccella, secondo me, dà fastidio proprio questo: l’idea che Auschwitz sia accaduto davvero, e che migliaia di studenti lo possano vedere coi propri occhi, senza intermediazioni ideologiche o catechismi di partito.
Perché, a ben guardare, non esisteva un altro modo per fare quella gita, se non quello.
E se ce ne fosse stato un altro, beh, la Roccella ce lo spieghi.