Ma l'algoritmo, esiste?

Ma l'algoritmo, esiste?
Photo by Lina White / Unsplash

Negli anni ’90, Marco Pannella ebbe un’idea che oggi definiremmo suicida dal punto di vista mediatico: lasciare una segreteria telefonica aperta e mandarne il contenuto integrale, senza filtri, in onda su Radio Radicale. Niente selezione. Niente censura. Chiunque poteva chiamare e scaricare tutto: pensieri, frustrazioni, rancori.

Fu uno shock.

Dalle linee telefoniche non uscì il Paese civile e rassicurante che tutti si raccontavano. Uscì un fiume di insulti, odio, paranoia, razzismo, complottismo da bar — la stessa “merda da social” di oggi, solo senza social. In diretta, nudo e crudo.

Pannella venne accusato di aver dato un palco agli odiatori, di aver “distorto” l’immagine dell'Italia, amplificando i deliri di una minoranza di squilibrati.
La narrativa ufficiale fu: la gente è perbene; quelli sono solo casi isolati.

Il messaggio implicito era: non disturbate il mito dell’italiano civile.
Quell’esperimento, invece, aveva solo mostrato il lato che nessuno voleva vedere.


Non si accusò nessun “algoritmo”.
Negli anni ’90, se avessi anche solo pronunciato quella parola, ti avrebbero chiesto se fosse una malattia della pelle. Non c’era alcun algoritmo: c’era una segreteria telefonica collegata a una radio nazionale. Punto. Niente filtri, niente buone maniere.

Il problema era che nessuno voleva vedere ciò che usciva da quella linea.

La cultura politica dell’epoca era ancora costruita attorno ai partiti.
A sinistra, il PCI (già diventato PDS) coltivava un feticcio: il Popolo.
Il Popolo non poteva essere cattivo. Il Popolo era moralmente superiore, geneticamente innocente. Se odiava qualcuno, era sempre per “giusta indignazione”. Dogma: il popolo è buono.

Sul fronte opposto, la cultura cattolica-centrista, erede della Democrazia Cristiana, aveva lo stesso mito — solo con un nome diverso: i semplici.
Gente “con le mani nella terra”, tradizionalista, legata ai valori della famiglia.
Solo che nella pratica, in quelle realtà, “valori della famiglia” spesso includevano la normalizzazione della violenza domestica. Una cultura dove lo schiaffo alla moglie era “una questione privata”, e dove l’ignoranza veniva scambiata per purezza d’animo.

La narrazione era la stessa:

Magari sbagliano, ma sono buoni dentro.

A rendere tutto ancora più intoccabile c’era l’epica del momento storico:
le masse — nella retorica dell’epoca — avevano appena abbattuto i regimi comunisti. Erano state protagoniste della libertà, quindi non potevano essere malvagie. Non era concepibile.

Poi arrivò quella segreteria telefonica.


E sputò in faccia al Paese la verità che nessuno voleva vedere: sotto la superficie della “brava gente” ribolliva odio, rancore, razzismo, violenza.

Una popolazione ORRIBILE.


Ma quella realtà venne rigettata.


Non perché fosse falsa, ma perché era scomoda. Quelle dinamiche c’erano da sempre — si preferiva non vederle. Lo so per esperienza diretta.

Sono cresciuto in un paese bigotto della bassa ferrarese, uno di quei posti dove l’apparenza vale più della verità. Dove le regole non scritte dominano più della legge. Se una ragazza spariva qualche giorno “in visita da una zia”, il paese sapeva perfettamente cosa “fosse andata a fare”. Era scontato: aborto. E si conosceva anche il nome del presunto padre, deciso per acclamazione popolare.

Quando tornava, era già condannata:
aveva abortito, era rimasta incinta, era stata una “facile”. Tutto già deciso dalle voci. Il fidanzato "ufficiale" spesso la lasciava: se non altro, sotto la spinta della famiglia. A seconda delle versioni, erano stati due uomini. O tre. O cinque. Le storie si gonfiavano da sole, in un crescendo di fantasia e cattiveria: una macchina del fango perfetta.

La prima volta che assistetti a questa dinamica, provai compassione per la ragazza.
Vedevo chiaramente l’ingiustizia.

L’anno dopo mi accorsi che solidarizzare automaticamente con le vittime è sbagliato.


Non solo ingenuo: proprio sbagliato.

Perché in certi contesti — quelli piccoli, chiusi, pettegoli — la “vittima” non è un ruolo morale, è un turno. Feci l'errore di solidarizzare, e lo pagai.

Avevo chiuso l’anno scolastico con voti altissimi.
Errore fatale: in quei posti non devi mai superare il figlio della vicina. Le madri vivono in una competizione silenziosa tra uteri, misurano il proprio valore dal successo liceale dei figli. Con i miei voti, avevo dimostrato che l'utero di mia madre potesse forgiare tanto eroe , mentre l'utero di altre donne, coi figli alle superiori, non era stato capace di tanto. Mai svalutare l'utero di una donna.

Come premio chiesi ai miei genitori l’Interrail.
Negli anni ’80, prima di partire dovevi passare dalla stazione di Bologna e farti vidimare la tessera: timbro, data, e da quel momento il tempo iniziava a scorrere. Quel timbro era il tuo “via libera” al mondo, insieme ad una dichiarazione di “autorizzazione all’espatrio per minori”, che io dovevo portare , visto che avrei compiuto i 17 a fine ottobre, e il viaggio lo feci d'estate.

Alla stazione trovavi sempre lo stesso microcosmo: facce curiose, zaini giganteschi, il misto di paura ed eccitazione di chi sta per buttarsi fuori dal nido. Bastava uno sguardo e già sapevi chi sarebbe stato “dei tuoi”. Era una tribù spontanea, costruita in cinque minuti, senza alcuna retorica: un sorriso, un “ tu dove vai?”, ed eri dentro.

Partivi da solo.
Avevo diciassette anni, ero il più giovane del gruppo, ma non importava.
Prima ancora di mettere il piede sul treno, avevi già amici, compagni di rotaie, gente con cui dividere mappe stropicciate, panini improbabili e la sensazione precisa che da lì in avanti tutto sarebbe stato possibile.

Ma in paese, io ero diverso: capelli lunghi, orecchini, vestiti non conformi.
Tradotto nel linguaggio del paese: drogato.

Così, mentre io ero da qualche parte tra Lione e Amsterdam, nel paese circolava la versione ufficiale: mi avevano visto alla stazione di Bologna sdraiato su una panchina, “fatto di eroina”, con i segni sul braccio. La fonte della notizia?

La stessa ragazza che l’anno prima avevano massacrato con le voci sull’aborto.

E a quel punto capisci come funziona davvero quel tipo di comunità:

oggi vittima, domani carnefice.
il turno prima piangi, il turno dopo mordi.

Mai toccata eroina in vita mia. All’epoca trovavo molto più interessante l’orgasmo: ognuno ha le droghe che merita.

Il messaggio, però, era chiaro: anche le vittime sono parte del gioco.

Cosa voglio dire con questo aneddoto?

Che dietro la retorica della brava gente c’è un altro idolo tossico: la santificazione delle vittime.


Oggi ci chiedono di compatire chi viene insultato sui social, di indignarci in nome della “civiltà”. Ma se mettessimo un microfono nella vita reale di molte di queste persone, scopriremmo che hanno fatto la stessa identica cosa ad altri. Solo senza Twitter.

La verità è brutale:

in quel gioco non esistono innocenti.
O giochi, o vieni giocato.
E quando giochi, diventi come gli altri. Se non giochi, sei il male in persona. A fortiori.

Quando si parla di odio sui social, quindi, non sono del tutto d'accordo con la vulgata generale. In particolare, su due punti:

  • Che sia colpa dell'algoritmo. Certo, questi eventi vengono in qualche modo amplificati, ma deve essere chiaro che le persone che scrivono quelle cose esistono anche senza algoritmo, e vivono tra noi.
  • Che sia necessario solidarizzare con le vittime. Le vittime sono colpevoli come tutti gli altri. Altrimenti non sarebbero su quei social. Se sei su alcuni social, sei colpevole quanto gli altri, sei pieno di odio quanto gli altri. Io me ne sono andato da quel paese di merda a 18 anni, in pratica. Non volevo giocare al gioco, nemmeno come spettatore.

Ed e' qui il punto. Tutti quelli che sono nel gioco, giocano al gioco. Comprese le "vittime".


Adesso leggo di una sindaca a cui danno della “puttana”.
E allora? È la prima volta nella storia dell’umanità che a una donna viene dato della puttana?
Ovviamente no. Non c’entra l’algoritmo.

Dovrei solidarizzare con lei?
No.

Per un motivo semplice: è lì per scelta.
Sta su quel social perché le conviene politicamente. Potrebbe chiudere l’account domani, aprirsi un blog senza commenti e parlare quanto vuole. Se resta, significa che il gioco le serve. E se giochi, accetti le regole del gioco. Punto.

Quando non si vuole vedere che l’umanità è piena di bastardi — soprattutto nelle realtà provinciali — si passa alla fase successiva: la mitigazione.
Ridurre, isolare, razionalizzare. Rassicurarsi che “non siamo tutti così”.

E qui arrivano le tre favole consolatorie.


• Mitigazione geografica: “Cose da bar.”

Ah, quindi se non entri nel bar, il male non esiste?
E chi sono quelli dentro il bar? Alienati importati da un altro pianeta? No: sono gli stessi che vedi al supermercato, in chiesa, all’assemblea di condominio.
Chiamarlo “cose da bar” serve solo a crederci immuni.

• Mitigazione etnica/sociale: “Succede solo in provincia.”

Certo. Perché in città sono tutti illuminati, vero?
A ME è successo in provincia, sì. Ma che in città non accada solo perché non ti conosce nessuno, non significa che le persone siano migliori: significa solo che non sanno da dove infilarti il coltello.

• Mitigazione temporale: “Lo facevano i vecchi / lo fanno i giovani / erano altri tempi.”

È la consolazione più patetica.
Crederlo ti permette di pensare che oggi non possa più accadere.
Ed è per questo che arrivate a dire assurdità tipo:

“Prima dei social eravamo tutti più buoni.”

No: prima dei social eravamo solo meno visibili. I social hanno tolto la coperta consolatoria che impediva a tutti di vedere che schifo faccia "la gente".


E quindi mi viene da chiedermi:

Ma siete sicuri che sia l’algoritmo?

Sono il primo a dire che i social monetizzano sulla malvagità.
Per loro l’odio è perfetto: genera traffico, genera commenti, genera tempo di permanenza.
L’odio è engagement.
Chi vuole fare una porcata è sempre più motivato di chi vuole solo dire qualcosa di sensato.

Ma essere bravi a monetizzare qualcosa non significa averla creata.

Accusare i social di aver inventato la malvagità è come dire che:

i medici hanno inventato le malattie
i meccanici hanno inventato le rotture del motore
i pompieri appiccano incendi perché campano sugli incendi

No.
Ci campano perché il problema esiste già.

La malvagità non nasce con l’algoritmo.
L’algoritmo la seleziona, la amplifica e ci lucra sopra.
Ma la materia prima siamo noi.

Il punto è che la malvagità è una categoria che non sappiamo gestire.
Il primo istinto, sempre, è negarla. Ridurla. Spostarla altrove.

  • “È colpa dell’algoritmo.”
  • “Sono cose da bar.”
  • “Sono i giovani.”
  • “Sono gli immigrati.”
  • “È la provincia.”
  • “È passato, oggi non succede più.”

Qualsiasi narrativa pur di non guardare l’ovvio:
l’odio è umano, non digitale.

Il problema non nasce quando esiste.
Il problema nasce quando qualcosa solleva il coperchio del verminaio.

E sotto non trovi una spiegazione metafisica.

Sotto trovi la gente.

L’abbruttimento.


Lo ripeto: se sei nel gioco, giochi. Oppure lasci il gioco.

E se siete su certi social, siete nel gioco.

Non ci sono vittime, ci sono solo giocatori.