Un vasto ecosistema di parassiti.

Un vasto ecosistema di parassiti.
Photo by Erik Karits / Unsplash

Il tema della povertà crescente nelle classi lavoratrici, unito alla progressiva distruzione del ceto medio, sta raggiungendo livelli allarmanti. Lo si percepisce dal fatto che i governi — anche quelli che per ideologia si dichiaravano nemici di ogni intervento redistributivo — sono ormai costretti a prendere provvedimenti d’urgenza. Quando persino gli ultraliberisti cominciano a parlare di “aiuti”, “controlli” o “piani di sostegno”, significa che il sistema ha iniziato a scricchiolare davvero.

Ma prima di discutere le soluzioni, vale la pena fermarsi a osservare il problema su un piano sistemico. Le aziende di vecchio stampo — quelle nate nel Novecento industriale — non riescono più a reggere la concorrenza globale, in particolare quella asiatica, dove i costi di produzione restano drasticamente inferiori e l’innovazione è ormai più rapida ed efficiente. Tuttavia, invece di ripensare il proprio modello economico, queste imprese, intrappolate nell’avidità dei loro azionisti, hanno imboccato la strada del parassitismo sociale.

Osserviamo i bilanci delle famiglie: cosa ci troviamo dentro, oggi?
Spese gonfiate per ogni servizio essenziale. Energia, acqua, trasporti, banche, carte di credito, telecomunicazioni — tutto ciò che non è tecnicamente “obbligatorio”, ma è ormai indispensabile per vivere, lavora in sinergia per drenare risorse dalle tasche dei cittadini. I prezzi aumentano con la stessa regolarità di un’abitudine tossica, come se queste aziende fossero allo stremo, sull’orlo della bancarotta.

Eppure, quando si analizzano i loro bilanci, si scopre l’opposto: non solo non vanno male, ma distribuiscono dividendi sempre più generosi. In altre parole, i soldi che servirebbero per competere sui prezzi, per migliorare i servizi, per innovare davvero, ci sono. Semplicemente, vengono spostati altrove — trasformati in cedole, bonus e stock option.

E' in corso una trasformazione delle grandi aziende, che non sono piu' capitaliste nel senso marxista del "profit" , ma sono capitaliste in senso sovietico, cioe' della "wealth extraction".


Ciò che queste aziende fanno è semplice quanto perverso: costruiscono, grazie alla complicità del legislatore e al reciproco coordinamento tra grandi gruppi, veri e propri oligopoli dai quali è impossibile sfuggire. Non competono più sul mercato, si rendono indispensabili.

Prendiamo l’esempio dell’industria automobilistica.
Un’automobile dovrebbe avere un ciclo di vita medio di quindici anni. Ma per un settore che deve garantire profitti annuali e crescite trimestrali, quindici anni sono un’eternità.
E allora ecco la trovata: dietro il paravento della “sicurezza”, si moltiplicano le revisioni, le certificazioni, le normative sempre più capziose, fino a creare un bisogno costante di parti di ricambio e servizi di manutenzione. Non è più la macchina a servire l’uomo, ma l’uomo a servire la macchina — o meglio, chi la produce.

Chi acquista un’auto non compra più un mezzo di trasporto: compra un abbonamento a una catena di esborsi programmati. Diventa, a tutti gli effetti, una mucca da mungere a intervalli regolari.

E questo meccanismo si ripete ovunque: nei trasporti, nelle banche, nelle carte di credito, nei carburanti, nelle telecomunicazioni, nella sanità privata. Ogni settore “libero” si è trasformato in un feudo chiuso, dove la concorrenza è un concetto puramente ornamentale, utile solo a mantenere l’illusione di scelta.

Il risultato è che il cittadino comune vede lievitare i costi delle utilities e dei servizi fondamentali senza avere alcuna via di fuga. Non esistono reali alternative di mercato, perché il mercato, in senso classico, è stato smantellato.

Queste imprese non potrebbero sopravvivere in un’economia realmente concorrenziale: la loro struttura si regge unicamente su rendite di posizione e protezione politica. Hanno trasformato la società intera nella propria fonte di credito, utilizzando le classi lavoratrici come una banca senza sportello e senza interessi.

Così, grazie a un gioco di prestigio contabile e legislativo, riescono a stare a metà strada tra pubblico e privato: occupano lo stesso spazio economico delle aziende statali, con la sicurezza garantita dalla domanda costante, ma incassano e distribuiscono profitti come se fossero imprese di libero mercato.
È la privatizzazione del monopolio — la forma più elegante di schiavitù economica mai concepita.

Li chiamerei, gli oligopoli della necessita'.


Come se ne esce?


In realtà, lo stiamo già vedendo accadere sotto i nostri occhi. Dopo trent’anni di orgia privatistica e di culto ossessivo del “privato”, oggi la parola stessa comincia a suscitare diffidenza. È diventata sinonimo di truffa legalizzata, di inefficienza a caro prezzo, di “servizi” che servono solo a chi li gestisce.

Quando milioni di persone iniziano ad avere lo stesso problema, non hai più una questione sociale: hai un problema politico. E se la politica non risponde, ne nascerà un’altra. Non serve evocare rivoluzioni o guerre civili: basta osservare ciò che accade.

In Italia esiste — ed è ancora vivo — un partito che rivuole il reddito di cittadinanza. In Finlandia si sperimentano forme di reddito universale esteso a tutta la popolazione. In quasi tutti i Paesi europei, l’idea di privatizzare ulteriormente la sanità è diventata elettoralmente suicida. In Germania, a Berlino, si parla apertamente di esproprio o riacquisto pubblico delle case per contenere i canoni d’affitto; nel frattempo, il Paese intero viaggia con abbonamenti flat da 59 euro al mese per tutti i trasporti pubblici locali.

È la risposta sistemica: quando il mercato fallisce, lo Stato torna. Sempre.

Perché la sequenza è semplice: quando una persona ha un problema, è un dramma individuale. Quando diecimila persone hanno un problema, diventa un titolo sui giornali. Ma quando milioni di persone hanno lo stesso problema, quello diventa un fatto politico. E alla fine, ricordiamolo, le armi — materiali e legali — le ha lo Stato, non Facebook.

Persino il governo “di destra” italiano, ufficialmente contrario al Reddito di cittadinanza, sta distribuendo bonus e sussidi di ogni tipo, frammentati e travestiti. Alla fine, avrebbe speso meno a statalizzare il problema.


E intanto cominciano a colpire anche i giganti dell’economia di rendita, come Airbnb: perché c’è consenso nel farlo, e quando il consenso c’è, il potere si esercita senza troppe esitazioni.

Quello che vedremo nei prossimi anni sarà una sequenza di nuovi “populismi”, ma tutti orientati in una direzione precisa: energia economica, casa economica, trasporti economici.


Non si tratta più di ideologie, ma di sopravvivenza. Il ceto medio è in via d’estinzione, e quando la base fiscale evapora, l’unica direzione in cui puoi andare è verso l’alto. Prima o poi, la tassazione dovrà toccare gli enormemente ricchi, perché è l’unico posto dove i soldi esistono davvero.

Il problema, semmai, è che i vecchi partiti stanno cercando di fare da gatekeeper: la sinistra che ammonisce “non votate chi propone il reddito di cittadinanza, ci siamo gia' noi, noi stiamo coi lavoratori” dimentica che proprio i lavoratori, ormai, votano altrove. L’elettorato non segue più le bandiere, segue il frigorifero.

E questo è ciò che intendo quando dico “finché dura”.
Finché dura questo equilibrio, questo teatro di equilibristi tra liberalismo e sussidi, tra privatizzazioni e assistenzialismo, prima o poi qualcosa dovrà cedere.

Un partito che oggi proponesse di statalizzare di nuovo l’ENEL per controllare i prezzi dell’energia, farebbe furore. Sarebbe etichettato come populista, poi come estremista, poi come “minaccia alla stabilità”. Ma la verità è che la domanda sociale è già lì, latente, pronta a coagularsi.

È solo questione di tempo prima che prenda la forma di un nuovo potere politico.
E allora sì, qualcuno proverà a fermarlo chiamandolo “terrorismo”. Ma a quel punto, come insegna la storia, sarà già troppo tardi.


Dire che vedremo un’ondata sempre più forte di partiti populisti — o meglio, partiti che propongono di rendere accessibili beni essenziali come energia, casa e trasporti, sostenendo i costi con una fiscalità progressiva — non è più una previsione ardita. È una constatazione.
L’idea di un “tutto gratis” o “a prezzo politico”, finanziato tassando i ceti alti, sta diventando mainstream. È la reazione spontanea di società che si scoprono spolpate.

Ma tutto questo discorso ha un presupposto preciso: la democrazia.
Solo finché la democrazia rimane in piedi sarà possibile fondare e votare partiti che dicano apertamente: “l’energia costa troppo, è ora che la paghino i petrolieri, nazionalizzate tutto”; oppure “i trasporti devono costare poco, vogliamo mezzi pubblici calmierati”. Fino ad arrivare alla sinistra berlinese che propone, con una punta di ironia e disperazione, “il kebab a cinque euro”.

Queste idee, fino a ieri derise come utopie, stanno diventando slogan virali. Basta che un villaggio finlandese sperimenti un reddito universale e funzioni: il video farà il giro dei social in un pomeriggio.
Il contagio delle idee economiche è più veloce del contagio dei virus.

E proprio per questo, chi oggi detiene ricchezze immense a spese del cittadino comune si trova davanti a un bivio: o cede qualcosa, o distrugge le regole del gioco. E siccome non intendono cedere nulla, tenteranno di distruggere — o perlomeno di mitigare — la democrazia.

Gli indizi ci sono già.
In Italia, un sistema elettorale che consente di governare con il 18% dei voti reali è già una forma di “democrazia attenuata”. In Inghilterra e in Francia questo meccanismo esiste da decenni, e altrove vediamo alleanze improbabili costruite non per governare, ma per fermare i cosiddetti “populisti”, con il sottotitolo implicito: salvate i ricchissimi.

Il punto è che quando finiscono davvero i soldi — e stanno finendo — anche le democrazie devono ascoltare le voci che salgono dal basso. E così, malgrado le ideologie ufficiali, cominciano i primi scossoni: in Italia, ad esempio, le nuove tasse su banche e Airbnb segnano un cambiamento di paradigma. Stiamo parlando di due settori che per decenni erano stati intoccabili.

Il tabù si è rotto, ed è solo l’inizio.


Gli oligarchi reagiranno cercando di restringere gli spazi di libertà politica: controllare i media, oscurare i movimenti scomodi, limitare la possibilità stessa di fondare partiti che mettano in discussione i loro profitti.


Ricordiamo che Beppe Grillo riuscì a bucare il muro mediatico solo perché era inatteso e perché portò trecentomila persone in piazza a Bologna per gridare "vaffanculo". Se accadesse oggi, probabilmente non lo racconterebbe nessuno — né i giornali, né le TV, né gli algoritmi dei social.

Il prossimo scontro non sarà più quello novecentesco tra marxisti e borghesi, ma tra cittadini che chiedono un welfare reale e una tassazione sui patrimoni, e oligarchi che finanziano partiti nati per difendere i propri rendimenti.

La vera faglia del futuro sarà tra chi vuole votare e chi vuole impedirlo.

E, ironicamente, l’Italia fa ancora una volta da laboratorio politico dell’Occidente.
Gli italiani sono stati i primi ad avere Berlusconi, quando altrove dicevano “da noi una cosa simile non potrebbe accadere”. Poi arrivarono Trump, Farage, Le Pen, Orban...

Ops. Dicevamo, "non potrebbe succedere"?


E oggi, mentre in molti Paesi i ricchi restano intoccabili, in Italia si tassano le banche e perfino Airbnb.

Segnatevelo: è un segno dei tempi. Tassare banche e immobiliare, in Italia, è un EVENTO STORICO. Senza dubbio.


E se la storia ci insegna qualcosa, è che quando l’Italia cambia direzione, l’Occidente la segue — sempre con qualche anno di ritardo, ma inevitabilmente.


E quando in Italia si arriva a tassare l'immobiliare e anche il bancario e poi anche un grande OTT come AirBnB , in termini politici siamo quasi agli schiaffoni.

Non so se "quasi".